giovedì 5 luglio 2012

Michele Serra ne L'Amaca

In questa calda giornata d'inizio luglio, vogliamo proporvi una piccolissima selezione della rubrica che Michele Serra tiene quotidianamente su La Repubblica.


Perché a volte non ci vogliono tante parole per esprimere appieno dei concetti e per ispirare riflessioni nei propri lettori...

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Ieri, lunedì 30 maggio 2011, verso le quattro del pomeriggio, sono finiti per sempre gli anni Ottanta italiani, il decennio più lungo della storia del mondo. 
È finita la politica del cerone e delle facce rifatte, delle convention, delle escort, 
delle olgettine, degli spot, della tivù dei telegatti e delle cerimonie di corte, 
dell' edonismo fintoallegro, dell' ignoranza caciarona spacciata per genuinità popolare (ingannando atrocemente il popolo). 
È finita la fiction. Quello che verrà dopo, non lo sappiamo. 
Ma sappiamo, finalmente, che un dopo esiste, e questo bastava, a Milano e altrove, per abbracciarsi con gli occhi pieni di benedette lacrime. 
Voglio dedicare questo giorno di felicità e di liberazione ai due o trecento ragazzini salariati che ho incontrato in piazza del Duomo al comizio di chiusura della Moratti: facevano pensare a una vecchia canzone di Gaber: "Non sanno se ridere o piangere, batton le mani". 
Il set che, di qui in poi, verrà inesorabilmente smontato era anche il loro set. Vorrei tanto che anche per loro cambiasse qualcosa. 
Io vengo da una famiglia di destra, e non era una destra così triste. Era una destra onesta, silenziosa, sobria, borghese. È stato un bel luogo dove crescere, e un bel luogo dal quale fuggire verso la mia vita. Quello che Berlusconi ha fatto alla destra italiana è spaventoso. Non gli potrà mai essere perdonato.  

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Cantare in coro con i tifosi "Leonardo uomo di merda", come ha fatto uno degli uomini simboli del Milan e del calcio italiano, Rino Gattuso, fa parte dei festeggiamenti di uno scudetto? 
Il calcio italiano ne sta discutendo con la consueta ipocrisia (il presidente del Milan Galliani ha definito quel coro "una ragazzata") e comunque senza grandi possibilità di venirnea capo, avendo già disceso, e di parecchi gradini, la scala della decenza. 
La confusione-collusione tra curve ultras e calciatori è uno dei fenomeni degenerativi più gravi, e in fondo assomiglia molto alla confusione-collusione tra eletti ed elettori. 
Se fior di ministri usano lo stesso frasario di un ubriaco al bar e un calciatore intona gli stessi cori della teppa fanatica, vuol dire che il concetto stesso di "classe dirigente" è andato a farsi benedire. 
I calciatori che vanno a esultare solo sotto le curve (come se non pagassero il biglietto, e non gioissero con loro, anche gli altri settori dello stadio) sono pari ai demagoghi che ci governano. 
Non si sentono depositari di alcuna esemplarità, di alcun vincolo di stile e di sportività, vivono per l'applauso delle loro tribù e finiscono per somigliare ai peggiori buzzurri che funestano gli stadi. Si sa che diventare ricchi non equivale a diventare signori.
Ma la possibilità ci sarebbe, perfino per Gattuso: basterebbe sentire come parlava, e come si portava, circa cento secoli fa, un milanista molto più importante di lui, Gianni Rivera.

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Avrei bisogno anche io di un «decreto interpretativo» che mi chiarisse, finalmente, perché ho sempre pagato le tasse. 
Perché passo con il verde e mi fermo con il rosso.
Perché pago di tasca mia viaggi, case, automobili, alberghi. 
Perché non ho un corista vaticano di fiducia che mi fornisca il listino aggiornato delle mignotte o dei mignotti. 
Perché se un tribunale mi convoca (ai giornalisti capita) non ho legittimi impedimenti da opporre. 
Perché pago un garage per metterci la macchina invece di lasciarla sul marciapiede in divieto di sosta come la metà dei miei vicini di casa. 
Perché considero ovvio rilasciare fattura se nei negozi devo insistere per avere la ricevuta fiscale. 
Perché devo spiegare a chi mi chiede sbalordito «ma le serve la ricevuta?» che non è che serva a me, serve alla legge. 
Perché non ho mai dovuto condonare un fico secco. 
Perché non ho mai avuto capitali all'estero. 
Perché non ho un sottobanco, non ho sottofondi, non ho sottintesi, e se mi intercettano il peggio che possono dire è che sparo cazzate al telefono. 
Io - insieme a qualche altro milione di italiani - sono l' incarnazione di un' anomalia. Rappresento l' inspiegabile. 
Dunque avrei bisogno di un decreto interpretativo ad personam che chiarisse perché sono così imbecille da credere ancora nelle leggi e nello Stato.

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martedì 3 luglio 2012

Pasolini e il gioco del calcio



Oggi vogliamo proporvi una bella pagina dedicata al gioco del calcio scritta dal grande, grandissimo Pier Paolo Pasolini.




Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. 


Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato.
Infatti le «parole» del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. 
Ora, come si formano queste ultime? 
Esse si formano attraverso la cosiddetta «doppia articolazione» ossia attraverso le infinite combinazioni dei «fonemi»: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto.
I «fonemi» sono dunque le «unità minime» della lingua scritto-parlata. 
Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? 
Ecco: «Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone» è tale unità minima: tale «podema» (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei «podemi» formano le «parole calcistiche»: e l’insieme delle «parole calcistiche» forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.
I «podemi» sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le «parole calcistiche» sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei «podemi» (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella «partita», che è un vero e proprio discorso drammatico.
I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice.
Chi non conosce il codice del calcio non capisce il «significato» delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi).
Non sono né Roland Barthes né Greimas, ma da dilettante, se volessi, potrei scrivere un saggio ben più convincente di questo accenno, sulla «lingua del calcio». 
Penso, inoltre, che si potrebbe anche scrivere un bel saggio intitolato Propp applicato al calcio: perché, naturalmente, come ogni lingua, il calcio ha il suo momento puramente «strumentale» rigidamente e astrattamente regolato dal codice, e il suo momento «espressivo».

Ho detto infatti qui sopra come ogni lingua si articoli in varie sottolingue, in possesso ciascuna di un sottocodice.
Ebbene, anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere: 

anche il calcio possiede dei sottocodici, dal momento in cui, 
da puramente strumentale, diventa espressivo. 


Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico.

Per spiegarmi, darò – anticipando le conclusioni – alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un «prosatore realista»; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un «poeta realista». 

Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un «poeta realista»: è un poeta un po’ maudit, extravagante.

Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da «elzeviro».
Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul «Corriere della Sera»: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.
Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica.
Tuttavia intendiamoci: la letteratura italiana, specie recente, è la letteratura degli «elzeviri»: essi sono eleganti e al limite estetizzanti: il loro fondo è quasi sempre conservatore e un po’ provinciale… insomma, democristiano. 

Fra tutti i linguaggi che si parlano in un Paese, anche i più gergali e ostici, c’è un terreno comune: che è la «cultura» di quel Paese: la sua attualità storica. 


Così, proprio per ragioni di cultura e di storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia.


Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del «goal». Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. 
Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico.
Anche il «dribbling» è di per sé poetico (anche se non «sempre» come l’azione del goal). 
Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai. 
Chi sono i migliori «dribblatori» del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani. Dunque il loro calcio è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal.

Il catenaccio e la triangolazione (che Brera chiama geometria) è un calcio di prosa: 
esso è infatti basato sulla sintassi, ossia sul gioco collettivo e organizzato: cioè sull’esecuzione ragionata del codice. 
Il suo solo momento poetico è il contropiede, con l’annesso «goal» (che, come abbiamo visto, non può che essere poetico). 

Insomma, il momento poetico del calcio sembra essere (come sempre) il momento individualistico (dribbling e goal; o passaggio ispirato)..


Il calcio in prosa è quello del cosiddetto sistema (il calcio europeo).
Il suo schema è il seguente: Il «goal», in questo schema, è affidato alla «conclusione», possibilmente di un «poeta realistico» come Riva, ma deve derivare da una organizzazione di gioco collettivo, fondato da una serie di passaggi «geometrici» eseguiti secondo le regole del codice (Rivera in questo è perfetto: a Brera non piace perché si tratta di una perfezione un po’ estetizzante, e non realistica, come nei centrocampisti inglesi o tedeschi).


Il calcio in poesia è quello del calcio latino-americano: il suo schema è il seguente: 
Schema che per essere realizzato deve richiedere una capacità mostruosa di dribblare (cosa che in Europa è snobbata in nome della «prosa collettiva»): e il goal può essere inventato da chiunque e da qualunque posizione. Se dribbling e goal sono i momenti individualistici-poetici del calcio, ecco quindi che il calcio brasiliano è un calcio di poesia. 


Senza far distinzione di valore, ma in senso puramente tecnico, in Messico [Olimpiadi 1968] è stata la prosa estetizzante italiana a essere battuta dalla poesia brasiliana.

                                                                                                                                                                      PIER PAOLO PASOLINI